INTRODUZIONE
Per il 23 maggio 1963 sul
"calendarium" di Papa Giovanni è segnato un impegno: Visita a
Montecassino.
Quella visita non può aver luogo. Non è che
Papa Giovanni si rassegni facilmente a disdirla. Occorre tutto il tatto del suo
segretario particolare per persuaderlo. Non si convince nemmeno quando gli viene
apertamente prospettato - in base a ciò che i medici hanno detto - il
pericolo di una emorragia. Dice: "Un'emorragia non sarebbe poi la fine. Vuol
dire che se verrà, i monaci mi metteranno a letto in una cella del
monastero. Morire a Montecassino. Che bella morte!".
Cede soltanto quando
gli vengono fatti osservare i guai che deriverebbero, anche per le
autorità italiane, in caso di un incidente del genere. Il governo
italiano è dimissionario, e un viaggio del Papa ammalato, se ci dovessero
essere complicazioni di qualsiasi genere, metterebbe in difficoltà le
autorità locali. Meglio attendere un momento migliore ed anche
esteriormente più sereno.
Ma quel momento non verrà. Papa
Giovanni non uscirà più dal Vaticano. I giorni che vanno dal 23 al
26 maggio sono giorni di lento e doloroso progresso del male che affligge il
Papa e che sta per vincerne definitivamente la robustissima fibra.
Il 26
è domenica. Ma la folla consueta, con gli occhi rivolti alla "finestra
del Papa", questa volta - la prima volta - non ne vedrà spuntare puntuale
ed amica la bianca figura. D'altronde, tutti hanno il cuore stretto in un amaro
presentimento, già da molti giorni. Sanno che cosa significa oggi quel
balcone deserto. Intuiscono che il Papa è peggiorato. Sperano, ma
più cercando in quella speranza una forza per sé che una smentita
alla legge misteriosa che regola la vita e la morte di tutti gli uomini. Papa
Giovanni è un "giovane" di spirito, ma è un vecchio d'anni, e sino
ad ora ha dato prova di saper chiedere ogni resistenza possibile alla propria
fibra contadina. Di più non gli può essere comandato. I fedeli
intuiscono anche questo; eppure continuano a pregare. Forse poche volte come
questa la preghiera di tutto il mondo cristiano, cattolici e non cattolici - ed
anche non cristiani - ha unito istintivamente la volontà di impedire a un
uomo amato di morire e l'abbandono pieno alle decisioni insindacabili della
volontà di Dio.
Papa Giovanni comprende di che si tratta. Non ignora
il proprio male, anche se non è del tutto consapevole della
rapidità con cui esso prende possesso di lui e lo sta annientando.
Istintivamente cerca negli anni lontani un momento come questo, vissuto da una
creatura che egli ha amato come poche altre: è il momento della
lucidità, in cui è necessario, dire la verità a se stesso
prima che agli altri; ed accettarla con tutto ciò che essa comporta. Un
Papa - qualunque Papa - è di per sé un esempio; e non può
sottrarsi a questa automatica responsabilità; può soltanto
arricchirla con la propria virtù; e può dilatarne il significato
spirituale con umiltà e pazienza.
È quello che Papa Giovanni fa con
l'immediatezza e la semplicità consuete.
«Pensa forse che ci
aspetti la stessa sorte di mons. Radini?» - dice agli intimi. Non ha mai
dimenticato quel giorno lontano, quando toccò a lui chinarsi sul volto
emaciato del suo vescovo per dirgli coraggiosamente la verità che fa
tremare il cuore di ogni uomo, anche del più santo. Anche lui, come
Radini, sa che la serenità dell'accettazione nasce dall'immediato
distacco dalla terra e dalla vita; distacco che non è rinnegamento ma
trasfigurazione di affetti e di speranze.
Al professor Mazzoni dice:
«Sia fatta la volontà di Dio. Ho le valige pronte, e sono pronto
anch'io, anzi prontissimo a partire».
Dolore e commozione si
addensano, come salendo da tutto il mondo, nella stanza dove il Papa comincia a
vivere la propria agonia. Anche se già condannato a letto, non gli
è stato impossibile dare una rapida scorsa ai giornali. Ha compreso dalla
"crudeltà" delle illazioni giornalistiche soprattutto una cosa, la
più bella che i suoi occhi abbiano potuto decifrare su quelle pagine: che
il mondo intero, il mondo degli uomini che credono, sta pregando per lui. Il
mondo che crede prega e soffre; il mondo che non crede è presente con la
sua sofferenza e la sua trepidazione.
Papa Giovanni vuole che tutta questa
preghiera possa raggiungere uno scopo. Molto certamente non sarà esaudita
per ciò che riguarda la sua vita. Milioni e milioni di uomini, di ogni
Chiesa e di ogni religione, pregano per lui, e tuttavia non saranno esauditi.
Non saranno esauditi, ma saranno ascoltati. Egli morirà, ma quella marea
meravigliosa, tessuta di lacrime e di speranza, non deve esaurirsi in se stessa.
Con voce già affaticata, il Papa da un'intenzione a quell'implorazione
concorde: «Diamo un'intenzione a tutte queste preghiere. Se Dio vuole il
sacrificio della vita del Papa, che esso valga ad impetrare copiosi favori sul
Concilio ecumenico, sulla Chiesa santa, sull'umanità intera che aspira
alla pace. Se invece a Dio piace prolungare questo servizio pontificale, che
ciò sia a santificazione dell'anima del Papa e di quanti con lui lavorano
e soffrono per la dilatazione del Regno del Signore».
Il male che lo
affligge è costante e doloroso: la gastropatia. La prima crisi di salute
si era manifestata nell'ottobre del 1961; ma si era trattato semplicemente di
un'affezione bronchiale, di cui aveva già sofferto nel dicembre del 1959.
«La buona salute, che minacciava di allontanarsi, sta per tornare, è
tornata, anzi!» - aveva detto il 2 dicembre 1962. Era tanto tornata che
cinque mesi dopo il Papa decide di iniziare la novena in preparazione alla festa
di Pentecoste, nella Torre di San Giovanni, che tempo prima, nel quadro di vasti
ed urgenti restauri di molti edifici vaticani, si è fatto adattare a
"ritiro" intimo e tranquillo.
Ma neanche questo ritiro è possibile.
La preparazione alla discesa dello Spirito Santo sulla Chiesa egli la
farà sul letto della sofferenza, e la sua vita terrena si chiuderà
il lunedì di Pentecoste. Anche questo, nei disegni imperscrutabili di
Dio, è stato un esaudimento della preghiera del Papa. Egli che aveva
voluto, per ispirazione di Dio, e indetto con fermezza e audacia evangeliche un
Concilio da lui stesso definito "nuova Pentecoste", se ne andrà incontro
al Signore mentre la Chiesa, con le preghiere festose della sua liturgia
più solenne, ringrazia il Signore per la santificazione effusa su tutta
la terra.
Papa Giovanni è stato un dono dello Spirito Santo
concentrato e riassunto in un uomo anziché in un moto invisibile di
grazia; è stato un dono che ha avuto un volto e un nome. "Un uomo mandato
da Dio" - come ha detto per primo il Patriarca Atenagora di Costantinopoli,
parafrasando un versetto del Vangelo di san Giovanni.
L'ULTIMA PAROLA AI LAVORATORI
Gli ultimi messaggi di Papa Giovanni, registrati
alcuni giorni prima, sono stati, nel maggio 1963, tutti messaggi di serena
speranza, d'incitamento alla fiducia, al coraggio, all'impegno. A guardare la
parabola della sua vocazione, dall'infanzia al pontificato, si scoprono,
evidenti, i segni di una costante convergenza fra testimonianza di parola e
testimonianza di ascetica intima e di devozione profonda.
Il "servo dei
servi di Dio", l'"umile Papa Giovanni", come maestro e dottore della Chiesa
universale, si è congedato dagli uomini con una parola ai vescovi con un
saluto ai lavoratori.
Il messaggio ai vescovi è del 20 maggio. Dice.
fra l'altro: «L'universale invocazione allo Spirito Santo, affretti nella
famiglia dei credenti quell'auspicato rinnovamento, al quale tende innanzi tutto
il Concilio; e renda più deciso l'impegno a servire Iddio e le anime con
una vita illuminata dalla carità, portata innanzi dalla giustizia,
integrata dall'amore, sospinta alle grandi conquiste cristiane dallo spirito di
quella libertà donataci da Cristo».
Nel messaggio ai lavoratori
polacchi - riuniti in pellegrinaggio al Santuario della Madonna di Pickary - il
26 maggio - il giorno stesso della prima grave crisi del male - Papa Giovanni
diceva: «Voi sapete quanto stia a cuore a noi e alla Chiesa difendere i
vostri diritti, migliorare la vostra condizione e proclamare, secondo i precetti
del Vangelo, quanto appartiene al giusto benessere vostro e delle vostre
famiglie, conservando tuttavia quell'ordine per cui i beni eterni e spirituali
abbiano il primo posto, mentre i beni terreni con quelli si armonizzino. Questo
è quanto abbiamo inteso compiere soprattutto per mezzo della lettera
enciclica Mater et Magistra e con quella più recente Pacem in terris. Non
ci risparmieremo fatica, fino a quando avremo vita, affinché si abbiano
sempre per voi sollecitudini e cure. Abbiate fiducia nell'amore della Chiesa e
ad essa affidatevi tranquilli, nella certezza che i suoi pensieri sono pensieri
di pace e non di afflizione».
Da questo momento le parole terrene di
Papa Giovanni finiscono.
Le ultime che zampilleranno, sempre più
rare, dalla sua lunga agonia, appartengono a quella "lezione di cristianesimo"
che non è mai stato possibile, per fortuna, inserire nei documenti del
magistero ufficiale; parole che per la sofferenza e la speranza da cui nascono
appartengono in modo particolare e diretto a tutti gli uomini di buona
volontà che credono ancora al "fare" prima che
all'"insegnare".
"Fino a quando avremo vita...". I lavoratori polacchi,
mentre ricevevano il messaggio del Papa - preparato precedentemente - sapevano
già, molto probabilmente, che egli stava già entrando nella lunga
agonia, e non poterono non pensare, insieme al loro Primate, il card. Wyszynski,
che aveva visto pochi giorni prima il Papa in piedi, di ricevere quel messaggio
come un testamento, e sentirsi chiamati a restarne responsabili in modo del
tutto particolare. La vita di Papa Giovanni, spegnendosi lentamente, diventava
la riprova della sua morte preziosa, come la sua morte, già vicina, si
rivelava come il più logico suggello di quella vita.
La cronaca
dell'agonia di Papa Giovanni è lunga e dettagliata; ed esiste in una
varietà sconfinata di versioni. Chi non ha tenuto conto di quei giorni e
di quei momenti? Chi non ha conservato impressi nel cuore, di giorno in giorno,
tutti gli elementi che si andavano configurando come la cornice naturale di un
avvenimento che avrebbe scosso il cuore del mondo?
Chi non ha vissuto
quell'agonia come l'agonia della persona più cara ed insostituibile? È
facile, anche a tre anni di distanza, interrogare chiunque dovunque, e
raccogliere la stessa testimonianza. Quel giorno tutti si sono resi conto di
occuparsi della morte come se la morte fosse diventata di colpo importante,
decisiva più d'ogni altra realtà a portata dell'uomo.
Per
descrivere quei giorni e quelle ore non è nemmeno possibile credere
all'efficacia delle parole. A parte l'intimità con cui ciascuno di noi ha
preso parte a quell'agonia e a quella morte, è possibile riconoscere che
mai prima di quel pomeriggio del 3 giugno 1963 le immagini erano state
così importanti ed essenziali, per dare la misura della partecipazione
degli uomini alla morte di un uomo. Ma parlo delle nostre immagini,
beninteso.
Infatti, non esistono immagini della sua agonia o della sua
morte. La Provvidenza ha disposto che nessun'ombra sfiorasse il tramonto del
sereno patriarca, e che la ridda delle supposizioni non si scatenasse accanto al
suo letto. Eravamo tutti attorno a quel letto col cuore, ma non avevamo affatto
bisogno di vedere il volto del padre che viveva "momento per momento la propria
morte" come disse lui stesso.
Quello è stato uno dei nostri
più limpidi e spontanei atti di fede. Non abbiamo avuto bisogno
d'immagini e di parole. C'era dentro ciascuno di noi un'immagine che poco
importava - in quel momento - corrispondesse alle fattezze fisiche di Papa
Giovanni. Non era tanto l'immagine del padre quanto l'immagine della
paternità, e nessuno era incapace di darle i tratti della pietà e
dell'amore, a seconda del modo e dello spirito con cui, nella vita, aveva
scoperto Papa Giovanni e, in lui, la paternità di Dio e la
maternità della Chiesa.
Ernesto Balducci così ha rievocato
quelle ore d'attesa e di preghiera, in una pagina che resta una delle più
intense sulla "morte ecumenica" di Papa Giovanni: «Appoggiato ad uno dei
colonnini che fanno corona all'obelisco di Piazza san Pietro, tenevo gli occhi
fissi alla finestra che si era fatta d'improvviso radiosa. La folla tratteneva
il fiato. Era appena finita la Messa, e le parole della liturgia, solennemente
scandite nel grande silenzio, erano entrate come un lievito nella comune
commozione, purificandola e sollevandola all'altezza del momento imminente.
Perfino i transistors cessavano di essere fastidiosi: erano come cuori sollevati
e vibranti. Da essi, forse, scese la notizia, e circolò rapida,
sussurrata: è morto! Inginocchiato in mezzo a un gruppo di giovani, mi
sentii invaso da una strana gioia. Poche ore prima, lo aveva detto lui, al suo
segretario singhiozzante: "Perché piangere? È un momento di gioia,
questo, un momento di gloria". Sullo sfondo di un cielo terso e appena
imbrunito, il rettangolo luminoso si ritagliava come un varco sull'al di
là, sulla gloria in cui Papa Giovanni era immerso da giorni, prima ancora
che si rompessero i suoi legami con la carne martoriata e si spegnesse il
sorriso con cui da più giorni egli leniva e santificava l'angoscia di
tutti noi... Le vie del futuro erano state davvero impreviste e la sua casa -
come avrebbe potuto saperlo? - fu al centro del mondo. E tutto il mondo - lo si
può ben dire - vide per più notti la sua finestra accesa e tutti,
cattolici o no, si sentirono invitati, con uguale diritto, nella sua casa. Ecco
perché, in virtù della loro angoscia, così povera di
conforto, il maggiore sgomento per la sua morte lo hanno provato alcuni uomini
senza fede. Ce n'erano molti, nella piazza, sotto la finestra accesa. Erano
lì per bussare. Abituati a pensare al Palazzo Vaticano come si pensa ad
una reggia, isolata dalla vita quotidiana, lo hanno visto, invece, abitato da
una morte in tutto simile a quella che essi temono e da una speranza in tutto
simile a quella che, di tanto in tanto, desiderano. Per quanto mi riguarda, a
partire da quel momento, ogni volta che i miei pensieri e le mie attese
scivolano, come vuole la logica cristiana, oltre i limiti della vita terrena, in
quel misterioso aldilà dove si nasconde il centro di gravitazione di ogni
speranza e di ogni timore, mi sento libero non solo dallo sforzo metafisico che
il trapasso dal visibile all'invisibile comporta, ma perfino dal buio della
fede. Mi ritrovo, come in quel momento con gli occhi fissi sulla finestra
illuminata, nello sfondo ormai scuro, del cielo di Roma».
Questa
è soltanto una delle innumerevoli testimonianze che la morte, quasi
più che la vita, di Papa Giovanni ha stimolato e liberato. Ma che dire di
ciò che s'è acceso nel segreto delle coscienze
nell'intimità dei cuori? Certo, i maggiori drammi di coscienza sono
avvenuti in quella intimità. Papa Giovanni e stato un grande seminatore
di dubbio: ha regalato il dubbio di Dio, il dubbio dell'immortalità a chi
era ormai sicuro che le cose valevano per quello che mostravano, e che il
mistero non è che una faccia nobilitata della grande paura umana. Con
l'agonia e la morte di Papa Giovanni - che s'era definito la "fontana del
villaggio" - la sete degli uomini ha ripreso consapevolezza di se stessa, ed ha
acquisito il senso di Dio.
Il corteo funebre in onore di Papa Giovanni XXIII
Stemma pontificio all'ingresso della casa di Giovanni XXIII
«VUOLE ABBRACCIARE IL MONDO»
Il 27 maggio giunge in Vaticano, da Bergamo, mons.
Giovanni Battista Roncalli, nipote del Papa. Le condizioni dell'infermo vanno
peggiorando visibilmente; ma i momenti di consapevolezza sono ancora molto
frequenti.
Mons. Roncalli così racconta l'incontro con il Papa
moribondo: «Quando mi vide entrare mi rivolse un sorriso pieno d'affetto.
Prima ancora che riuscissi a informarmi sulla sua salute, mi domandò come
stessero i familiari, della nostra casa di Sotto il Monte, come fosse il paese
in quella stagione, quale attività stessi svolgendo, e se ne fossi
contento. Chiese anche notizie di alcune persone di Bergamo che gli stavano a
cuore. Poi pronunciò lentamente queste parole: "Vedi, tu arrivi qui e mi
trovi a letto. I dottori dicono che soffro di un male allo stomaco. Ma speriamo
che tutto si risolva per il meglio e che presto, io possa tornare a dedicarmi al
Concilio e alla Chiesa". E dicendo così fissò con uno sguardo che
esprimeva un amore infinito un grande Crocifisso di avorio che aveva voluto
fosse appeso sulla parete di fronte, proprio davanti al suo letto: "Guardalo -
mi aveva detto una volta - è lì con le braccia aperte
perché vuole abbracciare il mondo"».
Spiritualmente, quella di
Papa Giovanni era, durante l'agonia, la stessa attitudine del Cristo: il cuore
spalancato, chiamava il mondo intero. Dalle parole rivolte ai parenti ed agli
intimi, si deduce che il senso dell'intimità patriarcale, anche in quelle
ore fisicamente atroci, non gli e mai venuto meno. Ha trovato il modo di
chiedere notizie di persone lontane, di interessarsi ai casi di gente che non
vedeva da tanto tempo. Non ha reciso nulla in nome della propria sofferenza;
anzi, i legami dell'amicizia, in quelle ore, sono diventati più che mai i
legami della paternità.
Quando i suoi occhi si aprono, esplorano la
camera, guardano con tenerezza ai vivi, ma anche alle consuete fotografie dei
morti, che sembrano essergli venuti incontro tutti insieme. Il mondo apprende
dai bollettini medici il nome ufficiale della malattia che uccide il Papa -
eteroptasia gastrica - e la "famiglia pontificia" comincia la veglia rituale
accanto al suo letto. Ma Papa Giovanni pensa alla morte, parla già ai
suoi morti, entra in dialogo, con essi. È stato facile insegnare ai vivi, anche
ai non cristiani e ai non credenti, quanto sia necessario stare in dialogo
vicendevole fra loro. Ma molto più facile, per lui, in questo momento,
è il dialogo coi morti. Accanto, le foto dei congiunti e dei parenti sono
la garanzia della continuità di una fede profonda, di una rassegnazione
totale alla volontà di Dio.
Dai vecchi dagherrotipi, ecco i volti
intenti di mamma Marianna e di papà Battista, nelle espressioni intente
di chi guarda lontano, impacciato, come tutti gli umili davanti all'obiettivo
fotografico; ecco le foto delle sorelle morte, Maria e Ancilla. Alla parete, il
ritratto di don Francesco Rebuzzini; e quello di mons. Radini Tedeschi, che
gl'insegnò con la vita la più efficace maniera di compiere il
"servizio" episcopale: ci sono anche i ritratti dei due Papi morti in quella
stessa stanza: Pio X, Pio XI.
Nella notte tra il 30 e 31 maggio, una crisi
più violenta delle altre assale il malato: si tratta di un attacco di
peritonite che vince le ultime resistenze della robusta fibra del Papa. Per
combattere lo strazio che lo lacera, Papa Giovanni non fa che ripetere:
«Sia fatta la volontà di Dio». Il professor Valdoni giunge alle
nove. Purtroppo, non può che confermare la diagnosi: peritonite. E in una
forma che non lascia più alcuna speranza. «Questa - dice scuotendo
il capo con tristezza il medico - è la fine di Papa
Giovanni».
Il segretario particolare è d'accordo col Papa di
dirgli, quando sia giunta l'ora, che deve prepararsi alla morte. Ciò che
il giovane segretario di Radini Tedeschi, tanti anni prima aveva fatto al suo
vescovo - il dono della verità senza illusioni - tocca ora a farlo a
mons. Capovilla. Egli si china sul letto, poi s'inginocchia e bacia la mano del
moribondo.
«Padre Santo - dice - ho interrogato i
medici».
«Sì? - risponde il Papa. - Che cosa hanno
detto?».
«Padre Santo - prosegue il segretario - io sarò
leale con lei come lei è stato leale con mons. Radini. Le dico che oggi
lei è chiamato in Paradiso!».
È presente il confessore, mons.
Cavagna. La confessione del Papa dura pochi minuti. Poi rivolge nuovamente gli
occhi al grande crocifisso d'avorio che lo abbraccia dalla parete di fronte. Le
parole salgono alla labbra del moribondo, ma limpide e sicure nella loro
pienezza spirituale: «Quelle braccia allargate del Cristo sono state il
programma del mio pontificato. Un pontificato umile e modesto quanto volete, ma
di cui mi sono assunto tutte le responsabilità. Sono contento di quello
che ho fatto e di come l'ho fatto. Quelle braccia allargate mi dicono che quella
è la Chiesa cattolica, apostolica, romana, perché Cristo è
morto per tutti gli uomini, nessuno eccettuato. Non abbiamo altro programma, non
possiamo avere altro metodo che quello della croce e della carità che
dalla croce deriva».
A intervalli, con fatica ed insieme con
tenerezza, rievoca, più a sé che ai circostanti le tappe e gli
incontri più significativi della sua vita: Sotto il Monte, Bergamo, Roma,
la Bulgaria, la Turchia, la Grecia, la Francia, Venezia. Chiede perdono a tutti:
«Chiedo perdono a tutti quelli nei confronti dei quali posso aver mancato
dal tempo della mia giovinezza ad oggi. Ho cercato di amare tutti; ho voluto il
bene di tutti... Offro ogni mia sofferenza perché tutti siano una cosa
sola: ut unum sint».
Mons. Van Lierde gli amministra l'Estrema
Unzione, mentre il Papa segue con lucidità le preghiere.
Arrivano
anche i fratelli. Sono giunti in volo insieme al card. Montini. Mons. Roncalli,
il nipote racconta: «Appena furono giunti, li introdussi nella camera del
Papa, pregandoli che non piangessero e che uscissero quando proprio non
riuscivano a trattenere le lacrime. Quei poveri vecchi erano trepidanti per il
santo Padre ed erano ancora tutti agitati per il viaggio in aereo, che avevano
affrontato per la prima volta. Nella stanza c'era una luce molto fioca. Noi ci
tenevamo indietro, perché il Papa respirava a fatica; aveva bisogno
d'aria, e a stargli vicino ci sembrava di togliergliela».
Il mondo era
in ansia.
La Radio Vaticana non faceva più mistero delle condizioni
disperate del Papa. Dopo le prime circonlocuzioni d'obbligo, si era passati alla
notizia chiara e dettagliata del decorso della malattia. Anche la radio si
faceva strumento di collegamento e di comunione, senza conservare inutilmente
quella patina di ufficialità che s'era rivelata assurda dopo i comunicati
dei primi giorni. La voce nello spazio era ormai, per tutti, un vero e proprio
strumento liturgico, e serviva a rendere unita l'immensa famiglia degli uomini
che stavano trepidando per il Pontefice già in balìa della
morte.
«SANTITÀ, VI PREGO DI STARE BENE»
Dal Canada un protestante telegrafa:
«Santità, vi prego di stare bene». È uno dei mille e mille
telegrammi che giungono dai paesi più lontani e dalle categorie
più diverse di uomini. Un gruppo di ebrei scrive dal Texas: «Noi
ebrei stiamo pregando per la vostra guarigione, Santità». Il
Patriarca Atenagora, da Costantinopoli, ha fatto sapere d'aver indetto preghiere
pubbliche in tutte le chiese ortodosse. Egli ama e stima Papa Giovanni come un
padre ed insieme come un fratello, e sente che il grande segno dell'ecumenismo
sarà consacrato anche da questa morte imminente. E si ricorderà di
Papa Giovanni proprio la sera del 4 gennaio 1964, quando, a Gerusalemme, sul
Monte degli Ulivi, ne potrà abbracciare il successore, il
«pellegrino ecumenico» Paolo VI.
Il vescovo anglicano di
Canterbury rivolge un accorato appello a tutti gli inglesi: «Preghiamo
perché il Pontefice Romano possa rimettersi in salute e la sua ardente
carità possa essere saziata». Il letto del Papa è diventato
davvero un altare attorno al quale il mondo intero sta pregando affinché
si compia la volontà misteriosa di Dio.
Verso le tre del mattino il
Papa apre gli occhi e riconosce i fratelli. Il volto esausto s'illumina di uno
stanco sorriso. Sembra che accanto ai testimoni più diretti della sua
infanzia, egli ritrovi la forza più viva e profonda della sua gente. La
morte, in agguato, dà tregua per un momento.
Con voce fioca, ma in
parole chiare, Papa Giovanni parla ai suoi cari: «... Ricordate il
papà e la mamma? Io ho sempre pensato a loro; e sono contento
perché tra poco li rivedrò in paradiso... Sapete come dice
Gesù: "Io sono la resurrezione e la vita"».
Questo breve
colloquio appare come una specie di miracolo. La voce di un certo miglioramento
si propaga nel palazzo, scende sulla piazza, giunge nelle redazioni dei
giornali. Qualcuno sperò davvero in un miracolo. Se Papa Giovanni
è un miracolo lui stesso, per la Chiesa, perché non potrebbe darsi
che il Signore ne riservasse uno anche per gli uomini che trepidano per lui,
facendogli riprendere per qualche tempo il cammino. «Se almeno potesse
veder la fine del Concilio!» pensa qualcuno.
Ma illudersi, al punto in
cui il male è giunto, è inutile.
Papa Giovanni, in un
intervallo di lucidità, parla chiaramente di morte; ne parla come di
un'ospite che è già in lui, che non se ne andrà più.
«Soffro con dolore - dice - ma con amore, con tanto amore. Ho potuto vivere
la mia morte passo per passo. Ora m'incammino dolcemente verso la
fine».
Così, è rimasto cosciente sino all'ultimo. Le
prostrazioni profonde che gli hanno tolto la parola e la facoltà di
reagire sono dovute soprattutto ai calmanti che ogni tanto gli vengono
somministrati per alleviare il dolore. Ma la consapevolezza interiore non gli
è mai mancata, e chi ha assistito alla sua agonia asserisce che si
è trattato di una consapevolezza sempre piena e totale, persino nelle
sfumature.
Fuori intanto, accadono le cose più impensate.
Il
segretario del partito socialista scrive direttamente al card. Cicognani:
«Eminenza, mi permetta di approfittare del fatto che siamo tutti e due
della stessa terra faentina. Se lei crede, faccia sapere a Papa Giovanni che da
alcuni giorni io non riesco a lavorare».
La festa di Pentecoste
è stata vissuta dal mondo cattolico come una lunga vigilia che ha insieme
i caratteri della sofferenza e della gioia. Non tutti sono riusciti a vivere la
raccomandazione che il moribondo ha fatto al suo segretario «questo
è un giorno di gioia, un giorno di gloria». Il cuore sa bene che
anche se questo è vero anche se non c'è adesso, per fortuna di
tutti gli uomini, qualcosa di più vero di questo, la sofferenza, la
lacerazione della morte è una realtà che il cristianesimo non ha
né negato né annullato: anzi, l'ha chiarita sino in fondo, nel
mistero della croce, per farne garanzia del riscatto e della salvezza.
Il
lutto è un fatto che non si nega; ed ha un valore autentico solo quando
sgorga spontaneo dal cuore, e dà alla vita un aspetto in cui si riassume
tutta la partecipazione del cuore. Chi è stato a Roma in quei giorni, in
quelle ore, chi ha atteso l'ora di Dio, qualunque fosse, con lo spirito
d'abbandono che Papa Giovanni ci ha insegnato, ha veduto da vicino questo
prodigio: lo sbocciare di una solidarietà che era anche orfanezza
universale, senso di profondo smarrimento nello stesso tempo che era anche
certezza di un arricchimento senza condizioni.
Ma a questo prodigio ha
assistito anche chi era lontano da Roma. In certi casi, anzi, la sensazione
d'aver annullato le distanze, e di aver portato tutti gli uomini accanto a quel
letto è stata anche più profonda, in misura della distanza che ci
separava da Roma.
Chi scrive ha vissuto quelle giornate e quelle ore in un
ambiente che potrebbe sembrare il meno adatto a quella partecipazione. Si
trovava in una città ligure di riviera, ad un festival cinematografico
del Terzo Mondo. Quando le prime notizie della malattia prima e dell'agonia del
Papa dopo piombarono sulle tavole rotonde e sui rinfreschi tradizionali, un gelo
paralizzò di colpo ogni vibrazione di mondanità. Erano presenti
ospiti da tutto il mondo, di ideologie e credenze diverse: eppure, nessuno ebbe
dubbi ed esitazioni: si parlò e si pensò soltanto a quel vecchio
lontano che ci moriva nel cuore. L'amministrazione comunista della città
decise di annullare ogni manifestazione esteriore del festival. Non pochi ospiti
partirono immediatamente per Roma. Scomparvero soprattutto i rappresentanti dei
governi stranieri. Andavano a Roma per ogni eventualità, e tuttavia non
nascondevano che il loro maggior desiderio era quello di giungere in tempo a
vegliare il più possibile da vicino l'agonia di un uomo che ormai
apparteneva a tutti, ed al quale tutti appartenevano, se non altro per la loro
sofferenza e la loro speranza.
È stata quell'agonia - prima ancora della
«morte ecumenica» - che ha rivelato Papa Giovanni alla maggior parte
degli uomini non cristiani. La morte - il grande spettro, il terrore di chi non
ha fede - è diventata, con lui, rivelatrice d'amore e di
paternità.
A Roma c'era stato un breve temporale, che aveva
illividito il cielo e lavato piazza san Pietro. Ma nemmeno il temporale era
valso a cacciare da quella piazza la gente che vi stava da molto tempo (alcuni
da una notte ed un giorno) senza rassegnarsi ad andarsene.
Papa Giovanni ha
detto già da molte ore le sue ultime parole.
Ha ricordato ancora i
bambini, i lavoratori, la pace. Con la voce impastata dalla febbre che lo
divora, ha invocato ancora la Madonna, con la tradizionale giaculatoria degli
alunni dell'Apollinare: Mater mea, fiducia mea. L'ultimo gesto di cui è
capace il moribondo, e quello di alzare un braccio, per far cenno a Zaverio di
spostarsi: gli toglie la visione del Crocifisso sulla parete. Quando, nel
pomeriggio del 3 giugno, la febbre raggiunge i quaranta gradi, il professor
Valdoni dichiara: «Giovanni XXIII è nelle mani di
Dio».
Poi la febbre cessa di colpo. Le mani del Papa non si muovono
più. I suoi occhi sono velati. La bocca è muta. Mentre sulla
piazza il card. Traglia celebra per lui la Messa dello Spirito Santo, Papa
Giovanni entra nella sua «umile gloria» come ministro di una grande
«Messa sul mondo».
Papa Giovanni XXIII: il Papa Buono
«GRAZIE, PAPA GIOVANNI»
Ernesto Balducci così riassume il senso di
festa sgorgato per tutti noi da questa morte, da questa «Messa»:
«Grazie, Papa Giovanni, non tanto per le tue encicliche, dalle quali pure
trarremo per tutta la vita argomenti nuovi alle nostre pacifiche battaglie; non
tanto del Concilio ecumenico, che pure esaudisce le attese secolari e inaugura
un nuovo millennio; grazie soprattutto della tua gloriosa morte, che ci ha
rimesso tutti in onore davanti a Dio e ci ha consolato per sempre. Hai avuto
tempo, nel morire di rievocare l'infanzia, l'amicizia, l'umile servizio, i
legami del sangue, insomma la nostra esistenza comune e l'hai assunta nella tua
dignità: perfino gli "esclusi" delle borgate romane ti hanno sentito come
uno di loro, non per la tua principesca benevolenza, ma per la tua
partecipazione alla povertà del loro vivere e del loro morire. Sei stato
il cuore del mondo, e ci hai portato tutti a contatto col mistero della Luce
eterna, anche quelli che quando ci pensano da soli, vedono buio. Hai parlato
nella tua lingua, ma ciascuno ti ha udito nella propria lingua. Anch'io ti ho
udito nella mia lingua, e passerò la vita a ripetermi quel che ho capito,
e che è così difficile, così difficile da far capire agli
altri!»
«Tu ci hai fatto vivere un cristianesimo, festivo, non
perché meno rigoroso nelle sue esigenze, ma perché sgombro di ogni
vecchiaia e obbediente a una gerarchia che ha al vertice la gioia di amarsi. Tu
lo sapevi, certo, di metterci tutti in imbarazzo, ma non lo hai fatto per altro
che per sdivezzarci da cattiverie tanto ereditarie che nemmeno ci eravamo
accorti di averle nel sangue, ché, anzi, nel taccuino della nostra
coscienza le avevamo scritte nella colonna delle virtù. Non so nemmeno
come faremo, d'ora in poi, a rimettere in ordine il nostro bilancio, se non
viene chi c'insegni a trascrivere in bella copia le frettolose correzioni a cui
tu ci hai costretti. Tra poco gli uomini della politica, della diplomazia e
della cultura avranno di nuovo le loro idee chiare, e allora saremo tutti un po'
più tristi perché un po' più "saggi". E
stato».
La salma di Papa Giovanni XXIII esposta in San Pietro